Che cosa è la mafia

Estratto dal libro intitolato “Che cosa è la mafia”, di Gaetano Mosca (1858-1941), pubblicato nel 1900. Scriveva, tra molto altro, il noto giurista, politologo e politico italiano: «II sentimento di mafia, o meglio lo spirito di mafia si può descrivere in poche parole: esso consiste nel reputare segno di debolezza o di vigliaccheria il ricorrere alla giustizia ufficiale, alla polizia ed alla magistratura, per la riparazione dei torti o piuttosto di certi torti ricevuti». Per cui: «Stabilito il principio che per la prevenzione e la riparazione di una larga categoria di offese personali un uomo che vuole e sa farsi rispettare, è la frase tecnica, non deve ricorrere alla giustizia legale, ne viene la conseguenza che è lecito, anzi doveroso, ingannare le autorità, o almeno non dare ad esse alcun lume, quando vogliono intromettersi nelle contese private disturbandone lo svolgimento naturale coll’applicazione dei canoni del codice penale. Quindi filiazione diretta dello spirito di mafia è l’omertà, quella regola secondo la quale è atto disonorevole dare informazioni alla giustizia in quei reati che l’opinione mafiosa crede che si debbano liquidare fra la parte che ha offeso e quella offesa. E questa regola, che si applica anche alle vertenze fra i terzi, è la principale causa che induce nei processi penali i testimoni a diventare così spesso bugiardi o meglio reticenti». Sicché, prosegue l’autore: «Ho conosciuto persone anche colte dell’alta Italia che trovavano qualche cosa di fiero e di simpatico, o almeno di non completamente ignobile, in questo sentimento o spirito di mafia per il quale ogni individuo crede onorevole fidare nella sua forza e nel suo coraggio per respingere e prevenire le offese. Ma accade talvolta che anche una maniera di pensare e di sentire, i cui moventi non sono tutti ignobili, produca in complesso risultati dannosi, ed in questo caso bisogna avere il coraggio di condannarla energicamente e senza attenuanti». Pertanto: «lo spirito di mafia è un sentimento essenzialmente antisociale, il quale impedisce che un vero ordine, una vera giustizia si possano stabilire ed abbiano efficacia fra le popolazioni che ne sono largamente e profondamente affette». Cosicché, lo stesso spirito di mafia «ha per ultima conseguenza l’oppressione del debole da parte del forte e la tirannia che le piccole minoranze organizzate esercitano a danno degli individui della maggioranza disorganizzata». Infine, si fa per dire: «In molte parti dell’Italia centrale il popolino crede sempre che il poliziotto, lo sbirro sia un essere abietto, e non approva che uno, che viene ferito in rissa da una coltellata, riveli alla giustizia il nome del feritore. Anche là abbiamo dunque non solo la mafia ma la sua indivisibile compagna, l’omertà».

Calamandrei e la Costituzione

Con il contributo odierno, torno su alcuni passaggi dei discorsi di Piero Calamandrei (1889-1956), senz’altro datati, quanto attuali, come se il tempo non fosse mai trascorso dagli anni della neonata Repubblica. Come a dire, aggiungo, rileggere il passato per capire il presente, ovvero tentare di comprendere perché molti degli attuali problemi sono ancora (probabilmente intenzionalmente) senza soluzione. Correva l’anno 1947, addì 4 del mese di marzo, quando nella seduta pomeridiana dell’assemblea costituente, rivolto ai colleghi, Calamandrei fece un parallelo con gli allora giornalai che gridavano per le strade: “Terza edizione! La grande vittoria degli italiani (...) ma poi aggiungeva, in tono più basso (...) non è vero nulla”. Ecco, proseguì l’illustre giurista: “bisogna evitare che nel leggere questa nostra Costituzione gli italiani dicano anch’essi (…) Non è vero nulla”. Attuale, sempre dal mio punto di vista, così come altrettanto emblematico, prosegue Calamandrei: “Ora io devo prima di  tutto riconoscere (...) che io non sono un politico. A me piace di dire le cose chiare. Questo può essere contrario alla politica, ma d’altra parte ognuno porta il contributo che può in queste discussioni (...). Voi mi dite che l’essenziale è che vi siano nella Costituzione i congegni per far prevalere sempre la volontà del popolo (...), ma siete proprio sicuri che il popolo, ossia gli elettori, daranno la maggioranza a voi, e che quindi, poiché voi avrete la maggioranza, la Costituzione sarà sempre interpretata a modo vostro? (...). Vedete, colleghi, bisogna cercare di considerare questo nostro lavoro non come un lavoro di ordinaria amministrazione, come un lavoro provvisorio del quale ci si possa sbrigare alla meglio (...). Io mi domando (...) come i nostri posteri tra cento anni giudicheranno questa nostra Assemblea Costituente (...) se la sentiranno alta e solenne come noi sentiamo oggi alta e solenne la Costituente Romana, dove un secolo fa sedeva e parlava Giuseppe Mazzini. Io credo di sì (...), credo che i nostri posteri sentiranno più di noi, tra un secolo, che da questa nostra Costituente è nata veramente una nuova storia (...) e si immagineranno, come sempre avviene che con l’andar dei secoli la storia si trasfiguri nella leggenda, che in questa nostra Assemblea, mentre si discuteva della  nuova Costituzione Repubblicana, seduti su questi scranni non siamo stati noi, uomini effimeri di cui i nomi saranno cancellati e dimenticati, ma sia stato tutto un popolo di morti (...). Essi sono morti senza retorica, senza grandi frasi, con semplicità, come se si trattasse di un lavoro quotidiano da compiere: il grande lavoro che occorreva per restituire all’Italia libertà e dignità (...). Assai poco, in verità, chiedono a noi i nostri morti. Non dobbiamo tradirli”. Concludo questo mio breve contributo con il (ri)suggerire ai giovani studiosi due classici di Calamandrei: Non c’è libertà senza legalità (ed. 2013), Roma, Laterza; Lo Stato siamo noi (ed. 2011), Milano, Chiarelettere.

Sulla invidia patologica

Riprendendo un mio precedente contributo di circa un decennio fa, sul punto non può negarsi che l’invidia esiste come sentimento negativo sin dalla comparsa dell’uomo, per cui, si legge nei testi, si manifestò per mano del demonio come in Adamo ed Eva, in Caino e Abele, in Esaù e Giacobbe, in Davide e Saul, in Giuseppe e suoi fratelli; per ultimo, ma non certo da ultimo, Gesù, crocifisso sotto Ponzio Pilato, “reo” di aver predicato il bene. Si legge, per esempio, che «per l’invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo e ne fanno esperienza coloro che le appartengono» (Sap 2,24). Oppure che «l’invidia per il bene accordato a un altro costituisce dunque un’insidia contro la fraternità. Dando voce a Dio stesso, il testo biblico ne fa emergere il pericolo, paragonato a un animale accovacciato alla porta, che, pur minaccioso, può però essere domato» (Gen 4,7). Inoltre: «è l’invidia a essere il segreto motore delle azioni disoneste, per cui il secondo prende il posto del primo, sostituendosi a lui, carpendo con l’inganno ciò che era riservato all’altro» (Gen 27,1-29). Senza tralasciare che l’invidia è annoverata tra i sette vizi capitali, o peccati capitali, cosiddetti in quanto generano altri vizi ed altri peccati. Ebbene, al di là delle suesposte esemplificazioni e delle relative interpretazioni, anche temporali, dal punto di vista più psicosocial-cognitivo, l’invidia è in genere definita come un sentimento spiacevole che si prova per un bene o una qualità presente in altre persone, che invece si vorrebbero per sé, sentimento assai spesso accompagnato da avversione e livore verso chi, quindi, possiede detto bene e/o qualità tali da realizzare le proprie aspettative in ambito familiare, lavorativo e sociale più in generale. Sicché, se per Marx la passione dominante della società moderna è l’avidità, per Durkheim è l’ambizione non regolata, viceversa, per Tocqueville è invece l’invidia (Martinelli, 2009). Perciò, l’invidia, sensu lato, è rappresentata da quel sentimento occulto che dove presente nei soggetti “portatori” è come se fosse un qualcosa rientrante tra i loro stessi bisogni primari che si ha necessita assoluta da soddisfare. Non c’è da meravigliarsi, quindi, se è poi così frequente “ritrovarla” nella vita di relazione di tutti i giorni, capace di deteriorare i rapporti interpersonali e sociali più in generale. Non è un caso, pertanto, che l’invidioso prova disagio e senso di infelicità quando gli altri riescono dove lui fallisce, provocando in se stesso forme di aggressività, odio e livore (Alberoni, 2009). Per concludere, brevemente, credo che l’invidioso, specie se patologico – una volta individuato e fatto lui comprendere di aver percepito il suo status negativo –, vada ignorato, poiché ogni nuovo contatto o vicinanza altro non aumenta il livore verso chi l’invidioso stesso ritiene essere migliore di se (perché migliore lo è realmente).